L'Eva che scrive ha avuto la sfortuna di incappare, al ginnasio, in una docente di lettere che, per il proprio metodo d'insegnamento, s'ispirava ai manuali militari dell'antica Sparta.
Era pertanto famosa in tutta la scuola per le interrogazioni i cui voti partivano dichiaratamente dal cinque in giù se il pomeriggio precedente ti aveva incrociato a spasso per strada, se avevi partecipato a un'assemblea di istituto o a uno sciopero, se l'avevi contraddetta o se portavi la camicia fuori dai pantaloni.
Era inoltre una fervida manzoniana praticante, e potete ben immaginare che agonia possa essere stato con lei lo studio di un testo che nemmeno il professor Keating riuscirebbe a far digerire agli studenti italiani.
A distanza di venti anni, e avendo sentito da più parti la stessa opinione, l'Eva che scrive ha quindi deciso di offrire una seconda occasione ai Promessi sposi e di provare a leggerli semplicemente come romanzo.
Qualche miglioramento in effetti si è avvertito: l'ironia manzoniana è piuttosto godibile, le descrizioni storiche sono troppo nettamente separate dalla narrazione ma comunque di grande interesse, certe figure - anche minori - sono perfette per l'epoca e per il carattere nazionale, i lunghi capitoli sulla peste sono molto affascinanti, apprezzabile anche l'assenza di colpi di scena piazzati proprio nell'ultima riga del capitolo, come nella miglior tradizione del feuilleton (ma, d'altra parte, Manzoni era benestante, con la penna non ci si guadagnava il pane, quindi non aveva bisogno di costringere il lettore a comprare il numero successivo).
Indifendibile, anche con tutte le migliori intenzioni del mondo, rimane Lucia, che continua a piangere-pregare-svenire-rinvenire-piangere-di-nuovo-punto anche a distanza di vent'anni.
Pensavo onestamente che l'antipatia verso il personaggio fosse dovuta in gran parte all'esuberanza adolescenziale di noi giovani lettori figli degli anni '90, ma scopro invece che il suo contributo fattivo alla storia è tutto racchiuso nelle lacrimevoli implorazioni rivolte a chicchessia, e dunque al suo essere strumento della Provvidenza e non essere umano in grado di prendere in mano il proprio destino.
Lucia piange, Lucia si strugge, Lucia tace, Lucia lavora, Lucia prega, Lucia diventa rossa...
In quello che è definito il più grande romanzo italiano dell'800, il personaggio femminile principale è di poco dissimile dalle figurine tutte uguali che infestano i romanzi rosa di qualsiasi livello.
Qualcuno obietterà che il personaggio deve essere contestualizzato nell'epoca storica, e tanto l'800 dell'autore quanto il '600 della narrazione non erano certamente periodi storici di fermento femminista.
Me lo sono detta anch'io ieri sera. Poi ho dato un'occhiata alla collezione di romanzi ottocenteschi che infesta la mia libreria ("leggo gli autori morti...").
E ho scoperto, per dire, che, se la prima edizione dei Promessi Sposi è del 1827 e quella definitiva del 1841, Orgoglio e Pregiudizio è del 1813, Madame Bovary del 1857, La Piccola Dorrit del 1857, Cime Tempestose del 1847. Non propriamente delle Beatrix Kiddo, ma le protagoniste di quei romanzi sono consapevoli di avere un ruolo nella propria vita, e - per quanto non sempre con successo - provano a cambiarla.
Al che mi è venuto un sospetto, ho fatto qualche ricerca in Rete - soprattutto per ovviare alla mia nota esterofilia letteraria - e ho scoperto un'informazione interessante.
In Italia i personaggi letterari femminili non hanno mai davvero infranto fino in fondo lo stereotipo della vergine-sposa-madre. Qualcuno ce n'è stato di sicuro (anche se a me è venuta in mente solo la Locandiera Mirandolina, del 1751), ma la stragrande maggioranza sono poco più che figurine da santino dell’oratorio. E quelle che hanno provato a distinguersi dalle altre in genere sono finite malissiiiiimo (vedi alla voce Gabriele D’Annunzio).
Per non parlare del fatto che in Italia le primi scrittrici donne sono comparse nel 1900, più o meno.
Ora, mi chiedo e lo chiedo a voi dodici lettori (d'estate diminuite): è la letteratura che rispecchia la mentalità del nostro Paese, o è la mentalità che è stata influenzata anche dalla letteratura?
Oppure è la mia bieca ignoranza ad accecarmi e voi potreste citarmi millemila personaggi femminili di rottura?
Perché a noi donne italiane non sono stati offerti personaggi femminili che possano essere davvero di riferimento e ispirazione? O, al limite, anche solo amiche di letture notturne? Perché, diciamoci la verità: Lucia è quel genere di donna con cui non è proprio possibile interagire. Noi possiamo ridere con Liz Bennet, prendere a schiaffoni Catherine quando fa la stupida, correre alle barricate insieme ad Eponime, ma con Lucia che vuoi fare? Metterti i cucchiaini in testa?
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