E' passato un anno...solo un anno? Già un anno?
Ieri tornavo a casa dal mare, e nei cinque minuti di tragitto che devo fare, non mi impegno a "scegliere" quello che voglio ascoltare, accendo la radio e vada come vada.
Ed è stata la solita emozione, trasmettevano "Back to Black" di Amy Winehouse, sempre lo stesso pugno nello stomaco come se non l'avessi mai sentita prima. E dopo le prime note e i primi versi c'è qualcosa di stonato che non riesco a realizzare e decifrare subito. Poi si accende la lampadina della razionalità: è morta un anno fa, l'unica differenza è che ero ancora in spiaggia. Mi arrivò un sms da parte di un'amica, non ne capivo il senso: hai sentito cos'è successo a Amy? No, non lo avevo sentito. E poi tutti dissero che era imminente, era la notizia che prima o poi sarebbe arrivata: trovata morta nella sua casa di Londra.
Io no, non me lo aspettavo, c'erano stati segnali ben più gravi negli anni precedenti, ne era sempre uscita, l'avevano data per spacciata troppe volte, lei si era sempre risollevata, l'avevano sempre salvata. Ero tra quelle che avevano il biglietto per l'unico concerto italiano, e nemmeno la cancellazione di quel tour mi aveva fatto pensare alla fine di tutto. Non adesso, mi dicevo. Non era nel mucchio delle bad girls, non era una qualsiasi. Un talento così puro e cristallino come il suo, il più clamoroso degli ultimi decenni, non poteva andare sprecato così, avrebbero trovato il modo di salvarla un'altra volta, l'ennesima. Era ancora una ragazza, soltanto una ragazza.
I love you much, is not enough: per me, la chiave per capire la parabola discendente di Amy è tutta qui.
Una ragazza che ha amato troppo, che ha usato il corpo come un murales per mostrarlo tutto, ma alla quale non è bastato l'amore di milioni di fan per evitare di gettare via ogni cosa, perfino la sua vita. Ha amato troppo il suo ex marito che l'ha fatta scendere all'inferno e che ce l'ha lasciata, e a quel punto forse è stata lei a non voler più essere salvata. Un amore malato e morboso, eccessivo, fatto di droghe e autolesionismo non poteva concludersi bene. Non per una come lei che aveva fatto di Back to Black il suo manifesto musicale.
Incapace di gestire il successo planetario che l'aveva travolta, massacrata dalla stampa che pubblicava le sue peggiori esibizioni pubbliche e private, era come se ogni giorno scegliesse di dimostrare che della sua vita ne faceva ciò che voleva, non voleva essere un esempio, se ne fregava, quasi giocava con i paparazzi appostati ogni giorno sotto casa: dolce, chiacchierona, spiritosa, aggressiva, distruttiva. E la stampa non le ha fatto sconti. Neanche quando la canzone d'amore tra le più belle mai scritte, "Love is a losing game", venne sottoposta come testo d'esame a Cambridge. Neanche quando era candidata a una pioggia di Grammy a Los Angeles. Non ce la fa, sarà un disastro, è appena uscita dalla rehab, il visto per gli USA non arriva, quando c'è è troppo tardi per partire. Ma all'ultimo minuto a Londra approntano un teatro col collegamento via satellite, la volevano a tutti i costi e fecero la cosa giusta: mise tutti a tacere con una delle sue migliori performace.
La voce di velluto che diventa calda come fuoco che crepita, chiudi gli occhi e sembra di sentire una diva anni '50 e '60 accompagnata dai suoni di oggi. E fu record di vittorie. E la sua meraviglia, davanti a quella ovazione che le veniva tributata anche da oltre oceano, racchiude tutto quello che era Amy: una bambina incredula, bisognosa di conferme che non le bastano mai, non le sarebbero mai bastate, fino alla fine.
Voleva andarsene, a tutti i costi, lo ha detto in tanti testi, cantava la sua disperazione.
Non mi interessa analizzare cosa è successo in un anno, dei libri pubblicati, dei cd postumi, delle speculazioni sul suo nome, del club dei 27, di suo padre che ha chiamato una fondazione come sua figlia.
No, per me non c'è un dopo, c'è Amy, quella che quando canta mi fa sorridere, mi emoziona e mi commuove ancora. Sempre.
Bellissimo il tuo ricordo di Amy. Nulla da aggiungere. Paola
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