New York. Gli anni ‘60. La Factory. Andy Wharol. Vi siete fatti un’idea. I newyorchesi dicono di se stessi che, comunque, sono di più: più rapidi, più veloci, più cattivi, più scortesi, se tu dici di saper fare una cosa, loro l’hanno fatta prima, se arrivi a New York ti dicono che, comunque, loro sono arrivati prima e che se tu ci sei, devi meritare di starci. L’opposto dei romani, insomma, che “e mica è mia Roma!” .
Gli anni ‘60, dicevamo. Sulla costa occidentale scoppia la Summer of Love; a Berkeley e San Francisco in primis era tutto peace & love, fiori e amore; a New York, no. A New York, ad esclusione dell’isola Greenwich Village, erano impermeabili agli hippies. A New York ci vedevano lungo.
La Factory. Un mondo in cui, da lì a poco, la riproduzione di un barattolo di zuppa sarebbe divenuta un’opera d’arte, dove si sarebbe rappresentata la dissoluzione dell’essenza a vantaggio della vuota apparenza in una successione di otto immagini in policromia. Un posto dove bazzicava strana gente, vampiri, che si nutrivano a volte l’uno del successo dell’altro.
E veniamo alle persone di cui stiamo parlando: un gruppo che prese il nome da libro-indagine sul sadomasochismo composto dal giornalista Michael Leigh, un gruppo che scrisse una canzone sull’eroina, una sugli spacciatori, una su una venere in pelliccia e che, per sempre, rese immortale la gente dei lati più brutti delle città, quella dei lati più selvaggi. I Velvet Underground.
Sul disco dei Velvet con la copertina di Warhol (quello della banana), fu detta una delle frasi slogan del rock, forse la disse David Byrne dei Talking Heads (che poi avrebbero illuminato di luce fredda gli anni ‘80 degli yuppies, ma questa è un’altra storia):