8 settembre 2011

LAMERICA

Sono figlia di immigrati, nata e cresciuta in una delle tante città industrializzate del nord Europa. Mio padre emigrò dalla Sicilia agli inizi degli anni Sessanta pensando come tutti gli emigrati di starci solo un paio d'anni, e invece sono trascorsi oltre quarant'anni e in Sicilia ci torna solo da turista. Prima di lui i fratelli e le sorelle lasciarono la terra natia per cercare fortuna in Argentina; e prima di loro mio nonno Rosario, anno di nascita 1883, che di traversate atlantiche ne fece ben tre. Doveva essere stato un uomo con un grande spirito d'avventura, mio nonno, per imbarcarsi ogni volta su bastimenti verso l'ignoto in viaggi che duravano un'eternità. Così almeno raccontava mia zia che di traversate ne fece solo una.

Quattro anni fa mi imbarcai anch'io. Su un aereo. Diretto non a Buenos Aires, bensì a New York. Il mio primo volo oltreoceano, cent'anni dopo la prima traversata di mio nonno. Arrivammo al JFK in tarda serata, notte fonda ora italiana. Senza che neanche ci rendessimo conto, ci ritrovammo in un taxi, diretto a Manhattan, 23ma Strada, attraversammo le strade incandescenti e una volta arrivati al B&B, sprofondammo nel sonno dopo un solo giorno di viaggio.

Il mattino seguente dopo un buon caffè alla cannella e un bagel ci infilammo senza guardarci attorno dentro la metropolitana. Non volevo vedere niente di New York. Era lì che dovevo andare. Era da lì che volevo vedere LAMERICA. A Battery Park prendemmo il traghetto e dopo aver passato la Statua della Libertà “approdammo” infine a Ellis Island.

La chiamavano l'isola delle lacrime, l'isola dove fino al 1954 si decise il destino di oltre dodici milioni di emigranti.

Oggi, l'antico arsenale ospita il Museo dell'Immigrazione, un luogo carico di sogni, di dolori, di speranza, ma anche di disperazione. Il percorso obbligatorio è medesimo a quello a cui erano sottoposti gli stessi immigrati: uomini soli, donne sposate per procura, famiglie intere. Dall'ingresso si accede alla Baggage Room, come si può dedurre dalle numerose valige accatastate. Qui vengono ispezionati i pochi averi, controllati i documenti per poi proseguire al primo piano. Ad attenderti nell'enorme sala, la Registry Room, ci sono gli ispettori dietro le scrivanie. Prendono velocemente appunti: domande incomprensibili, risposte intimorite, sguardi senza emozione, sguardi pieni di paura. Si passa quindi alla visita medica nelle ampie sale linde, rivestite di piastrelle bianche e nere. Scrutano ogni centimetro del tuo corpo e tu non pensi a nient'altro che a lamerica con gli occhi rivolti alla Statua della Libertà che scorgi dalle finestre.

Le stanze successive raccontano con oggetti, immagini, lettere e testimonianze i giorni, le ore trascorse in attesa di poter toccare terra americana. Per molti questo sogno non si realizzò mai, ma per tanti altri sì.

Al piano terra del museo c'è una banca dati, dov'è possibile ricercare i nomi di coloro che ce la fecero ad attraversare le poche centinaia di metri che separano Ellis Island a Manhattan. Per gioco cominciammo ad inserire i cognomi dei nostri parenti e trovai un omonimo di mio nonno. Rosario F. di 14 anni arrivato a New York il 14 luglio 1910 da Palermo. Non poteva di certo essere mio nonno, ma chissà, forse anche lui, come mio nonno, una volta uscito dal labirinto, tirò fuori dalla valigia di cartone il suo abito più bello, lo indossò e andò incontro al suo sogno americano.
 
 

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