21 febbraio 2012

I discendenti - Ma so io che cosa discende...


Ci sono dei registi che sono delle garanzie.
Tipo che esci di casa per andare al cinema e sai già che film vedrai. In tutti i suoi dettagli. Comparsa sullo sfondo che non avrà mai successo compresa.
Non si dà un'accezione positiva di tale caratteristica. Perché non è che quando andavi a vedere Kubrick nel '69 potevi immaginare 2001: Odissea nello Spazio, o ti saresti mai aspettato che Clint Eastwood avrebbe girato un musical, no?

 
Per cui, se sei in grado di prevedere per filo e per segno il film che stai andando a vedere o è il caso di tentare di riscuotere il premio di James Randi o il regista e lo sceneggiatore sono dei petulanti allievi della settima arte cui sfugge il concetto di personalità.

Nel secondo caso, non potete perdervi il giro nel meraviglioso mondo di Alexander Payne.
 Uno che qualunque film gira, c'è sempre un tempo triste (pure quando è ambientato alle HAWAI), un personaggio - preferibilmente maschile e un po' sfatto - che affronta un doloroso percorso di scoperta di sé dopo che è venuta a mancare - in qualsiasi improbabile modo possibile - la sua dolce metà che però forse così dolce non era, eh, dei personaggi di contorno che li scelgono apposta poco caratterizzati che sennò c'è il rischio che poi debba dirigere due attori interi nella stessa sequenza, e - soprattutto - uno svolgimento privo di qualsivoglia picco, acme, climax, apice, anche semplicemente una lieve variazione lontana nell'eco del Big Bang.

No, i suoi film sono lunghi, piatti, l'attore principale è perennemente in scena, quasi sempre inquadrato a tre quarti, con espressività parzialmente fissa, che trasmetta la lenta scoperta di ciò che non si conosceva ma che ancora non si è pronti ad accettare in pieno.

Non è sfuggito alla sua maledizione Jack Nicholson, non ci riesce nemmeno George Clooney, che si ritrova protagonista di The Descendants, questo mèlo il cui unico elemento interessante, il carattere pepato della figlia decenne, viene gettato nella fossa dell'eterno oblio a sei minuti dall'inizio, per lasciare spazio alla figlia diciassettenne un po' ribelle-ma-non-troppo-che-recupera-il-rapporto-col-padre-in-dieci-minuti, all'amico di lei-fumato-ma-anche-tanto-sensibile, al padre-stronzo-della-moglie-in-coma, alla decisione da prendere in merito alla vendita di un ultimo appezzamento di terra vergine, in una famiglia composta da 196 cugini e però alla fine decide tutto Clooney (che per tutto il film indossa solo camicie hawaiane, evviva i luoghi non comuni).
Il film è noioso, banale e poco sentito da un cast di attori che sembrano passare lì per caso di ritorno dalla caffetteria; la fotografia è piatta e questo, se giri alle Hawaii, non è un difetto, è un reato; Clooney recita in folle e non si capisce perché mai l'abbiano candidato all'Oscar; la regia è raccapricciante e se poco poco l'Academy prova a premiarla mi incateno all'ingresso del Chinese Theatre.

Voto finale: ho tanta voglia di prendermi le gengive a martellate con una mazza ferrata.

2 commenti:

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