“Eppure è sempre il Monte Velino quello che attira su di sé l’attenzione dello spettatore; anche se si è volto altrove lo sguardo, bisogna portarlo su di esso, tanto appare mirabile per la sua adamantina figura. Sembra che non riceva luce dal cielo, ma che risplenda di luce propria ed illumini i monti, il lago ed i piani.”
Così scriveva lo storico tedesco Ferdinand Gregorovius nei suoi quaderni, quando nella Pentecoste del 1871 decise di inoltrarsi in una delle regioni più selvagge, sconosciute e impervie della nostra penisola, troppo lontana dai sentieri battuti del Grand Tour, troppo vicina a Roma e al Regno di Napoli che avevano da offrire ai viaggiatori stranieri di allora ben altri splendori per rendere appetibile una digressione in luoghi abitati da briganti, lupi e orsi. Eppure Gregorovius affatto intimidito e spinto probabilmente dal desiderio romantico di conoscere luoghi incontaminati, volle inoltrarsi tra le montagne dell'Appennino Centrale anche per raccontare in prima persona una delle più imponenti e complesse opere di bonifica mai intrapresa fino ad allora e che stava per essere portata a termine proprio all'ombra del Monte Velino: il prosciugamento del Lago del Fucino. Ancora oggi, quando la nebbia scende e ricopre col suo manto bianco case, alberi, campi, sembra che lo spirito del lago torni da molto lontano a rivivere gli antichi splendori.
Quando arrivai la prima volta in Abruzzo fu proprio la cima del Monte Velino a darmi il benvenuto. Il viaggio da Roma era stato piacevole: le colline verdeggianti nonostante la stagione autunnale, i borghi illuminati da un caldo sole ottombrino, i cui raggi bassi baciavano il travertino facendolo risplendere, gli enormi stormi di uccelli che roteavano nel cielo turchese, non potevano che predisporre l'animo al buonumore.
Lentamente, lunghe ombre cominciarono ad oscurare il cielo, i dolci pendii si fecero sempre più aspri e nudi, l'oro del travertino si trasformò nella nuda pietra grigia.
Ero arrivata.
Per una persona cresciuta tra la Pianura Padana e le rive del Reno, abituata al frastuono, alle luci e ai colori della grande città, fu come essere stata scaraventata in un altro mondo a lei sconosciuto. La montagna più alta che avevo “scalato” fino ad allora non raggiungeva i quattrocento metri, ed ora invece mi ritrovavo circondata da montagne alte oltre i mille metri! Niente monumenti grandiosi, niente mostre, niente grandi teatri, niente caffè alla moda e locali notturni. E ora? Davvero solo boschi e cime imbiancate?
Mi ricordai delle parole di un caro amico tedesco che usava dire “Entdecke deine Heimat”, scopri la tua terra. Ed è quello che decisi di fare, cominciando dall'elemento dominante: la pietra; inizialmente, da quella che conoscevo meglio, quella lavorata e scolpita da mani abili.
Scoprii Sulmona, la patria di Publio Ovidio Nasone, un piccolo gioiello incastonato tra le rocce della Majella. Tutta raccolta tra la Chiesa di San Panfilo e Piazza Garibaldi, essa forma un bellissimo salotto, dove soffermarsi piacevolmente godendo di un panorama mozzafiato magari davanti ad una tazza di caffè.
Visitai Tagliacozzo, entrata nella storia per la famosa battaglia fra Corradino di Svevia e Carlo d'Angiò nel 1268, che mise fine alla dinastia di Federico II degli Hohenstaufen, e mi sorpresi a fissare incantata la bella piazza incorniciata da splendidi palazzi medievali e rinascimentali e che insieme all'obelisco sembrano essere la scenografia di una commedia teatrale.
Andai alla scoperta di un'altra gemma marsicana. Il Castello Piccolomini di Celano troneggia maestoso su un'altura ai piedi del Monte Serra e guarda su tutta la Piana del Fucino, non dimentico del suo passato glorioso. Verso il tramonto il sole sembra indugiare particolarmente con dolcezza sulle torri merlate, le quali brillano come diamanti sotto la calda luce vespertina.
Incoraggiata da tanta bellezza volli visitare L'Aquila. Devo ammettere che non fu amore a prima vista. Il tragitto in macchina fu reso difficile da un'improvvisa tormenta di neve che ci sorprese all'altezza di Tornimparte e mentre ci avvicinavamo verso la città un pensiero angosciante cominciò a martellarmi in testa: senza l'autostrada, saremmo stati spacciati! Immaginai villaggi isolati per intere settimane, raggomitolati su se stessi, senza alcuna possibilità di comunicare con il mondo esterno, villaggi muti, immobili, macchie scure in un paesaggio bianco. Ecco che la città mi apparve improvvisamente severa, ostile allo straniero, asserragliata all'interno delle mura angioine. Per mesi non ci misi più piede.
Con l'arrivo della bella stagione, però, mi accorsi che anche L'Aquila sorride e si risveglia in tutto il suo splendore. La bianca catena del Gran Sasso in contrasto con il cielo turchese le fa da preziosa cornice, le vie del centro con i suoi bei palazzi rinascimentali si affollano di studenti, commercianti, dipendenti che si concedono una breve pausa nel bar sotto l'ufficio, casalinghe che indugiano tra le bancarelle del mercato che ogni giorno viene allestito in Piazza Duomo. L'acqua che zampilla dalle 99 fontane che abbelliscono le 99 piazze della città fa da sotto sottofondo musicale. La chiesa di San Bernardino si staglia con il suo campanile nel suo candido biancore verso il cielo, mentre la bellissima e misteriosa chiesa di Collemaggio invita a riposare sul prato verde antistante. Il Forte spagnolo giace placido e sonnecchiante all'ombra dei pini. Non lontano, la campagna aquilana sembra essere stata dipinta da uno sconosciuto acquarellista.
Con l'arrivo della primavera mi addentrai timidamente tra le montagne abruzzesi, dove la roccia veniva ancora una volta plasmata per offrire pace agli eremiti, consolazione ai pastori transumanti, rifugio a briganti.
Quando meno te lo aspetti, nel bel mezzo di una radura, incappi in piccoli gioielli di arte romanica: le chiese di Bominaco impreziosite da affreschi di grande valore artistico, la minuscola chiesa di San Pietro ad Oratorium nei pressi di Capestrano, dove tra l'altro fu trovato il guerriero simbolo delle tribù italiche, la splendida chiesa di San Clemente a Casauria con il magnifico portale sono solo alcuni esempi di grande devozione rurale e pastorale.
Con il tempo imparai anch'io a non temere la roccia vera, viva della montagna e arrivata la stagione calda, armata di buona volontà mi incamminai lungo gli innumerevoli sentieri che l'Abruzzo ha da offrire. Nel Parco Nazionale d'Abruzzo mi emozionai incontrando lo sguardo dolce dei camosci, mi inebriai del suono cristallino dei torrenti e mi persi tra i boschi di faggio, per riposare infine sulle rive del Lago di Scanno.
E poi ancora il Gran Sasso, dove dall'alto di questa roccia ebbi la sensazione di avere il mare ai miei piedi. In lontananza potevo seguire con lo sguardo la lunga spiaggia della costa abruzzese.
Arrivò infine il momento di raggiungere la cima più cara e familiare. Si tratta di un sentiero faticoso, difficile per persone inesperte come me, perché si inerpica su un pendio lungo e a tratti ripido. Ma volli comunque tentare, un po' per curiosità, un po' per sfida. Ci incamminammo al tramonto, partendo da Rosciolo.
All'alba, dopo una breve sosta notturna al rifugio Sevice raggiungemmo la vetta del Monte Velino.
E potei finalmente abbracciare l'infinito.
Ciao Antagea, e benvenuta... :-)
RispondiEliminaBenvenuta anche a te. Molto scorrevole... fa piacere leggere di cose lontane nel tempo e nella realtà. Aspettiamo Antagea al prossimo articolo per vedere se conferma l'ottima prima impressione!
RispondiEliminaGrazie per i bei commenti e... naturalmente appuntamento al prossimo giovedì!
RispondiElimina