25 ottobre 2011

Jane Eyre - o dei remake che non andrebbero fatti mai

C'era una volta un terzetto di sorelle, in grado di scrivere alcuni fra i più bei romanzi dell'epoca vittoriana.
La sorella di mezzo si chiamava Emily. I suoi personaggi più famosi Catherine e Heathcliffe.
La sorella minore si chiamava Ann. Il suo personaggio più famoso Agnes Grey.
La sorella maggiore si chiamava Charlotte. Il suo personaggio più famoso Jane Eyre.
In quella casa la sera la conversazione di sicuro non languiva.


A guardarla con occhi moderni, Jane Eyre sembra uscita di sana pianta da uno dei quegli anime che ci riempivano i pomeriggi da piccoli e ci convincevano che il sacrificio in vista di uno scopo implica l'auto-tortura.
Rimasta orfana, viene maltrattata dai parenti che l'hanno presa in custodia e spedita in una specie di riformatorio femminile, dove la qualità della vita è vittoriana, quindi completamente assente, ma dove Jane riesce a scardinare un po' il sistema e a migliorare la situazione di tutti.
Una volta cresciuta, prende servizio come istitutrice presso l'antica magione di uno scapolo dal pessimo carattere, che però col tempo rivelerà un cuore d'oro e un terribile segreto nascosto in soffitta. Jane, integerrima come solo un'eroina vittoriana sa essere, fugge dalla perdizione, ma - a differenza di Emily - Charlotte aveva il cuore tenero e regala a tutti un grazioso happy end un po' moralista ma comunque happy.

Le versioni cinematografiche del romanzo sono numerose ma tutte piuttosto dimenticabili. Tranne una.
Avete avuto anche voi un brividino, victorian-addicted in ascolto? Sì, parlo di quella del 1943. Con quel bianco e nero da far male agli occhi. Quello che ha chiarissimo il significato del paesaggio in chiave romanticista. La versione con Joan Fontaine.
E soprattutto con Orson Welles.
Visto una volta, Rochester non potrà avere altri che il suo volto.
La versione definitiva e perfetta.

Un giorno qualcuno dovrà indagare sul perché al cinema questa definizione non basti per proibire i successivi remake. Sul perché dobbiamo subirci Orgogli e pregiudizi come se piovessero, o ritrovarci con Mia Wasikowska - la donna che contende a Tilda  Swinton lo scettro di vetrofania maxima - nel ruolo di una istitutrice inglese dell'800. Che magari così pallida, rossiccia ed evanescente proprio non te la immagini.
O del perché all'improvviso nei ruoli sexy ci ficcano a tradimento Michael Fassbender, che per carità, non è che gli puoi dire che è brutto, ma ha la personalità del mio portapenne di Harry Potter, mentre gli eroi romantici vittoriani dovrebbero essere almeno al livello di un Humphrey  Bogart in Casablanca, per dire.

Siamo naturalmente grati per la scelta di Jamie Bell e di Madame Judie Dench, che almeno ci regalano quel tanto di accento inglese di cui siamo affamate e sempre in cerca: cioè, il pubblico di riferimento di questi film siamo noialtre, che ci guardiamo qualsiasi cosa sia stata tratta da un romanzo inglese antecedente la Prima Guerra Mondiale, e abbiamo fisicamente bisogno di trovarci crinoline, cuffione, parole desuete e tanti, musicali th. Quindi, potete gentilmente spiegarci signori della produzione come diamine vi viene in mente di metterci un'australiana e un tedesco cresciuto in Irlanda?
Almeno fateli studiare, che, al confronto, Reneé Zellweger in Bridget Jones sembrava Emma Thompson!

Al limite, in mancanza di meglio, potreste metterci una regista, o un regista, o anche un robot, ma insomma qualcuno che muova la macchina da presa in maniera utile e finalizzata, sarebbe carino.
Oh, e potreste dare due sterline in più al location-scout, così magari l'esplora, la campagna inglese, e non si ferma al primo casello.
Il direttore della fotografia invece no, lasciatelo lì dov'è, grazie, che almeno lui/lei un'idea di base ce l'ha.

Insomma, l'ennesima operazione di cui non sentivamo alcun bisogno.

Voto finale: noleggiate La Porta Proibita e dimenticate che siano state girate altre versioni.

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