10 maggio 2011

Ferite dal silenzio - Parte Seconda

Zakiya è andata a caccia di lucertole con Efia. Hanno corso tutta la mattina tra gli alberi e non ne hanno presa nemmeno una. Sfinite, tornano a casa; ma hanno ancora la forza di ricorrersi tra loro.
  Milumbe, un’anziana del villaggio, le ferma.
- Efia, Zakia! Dove siete state?
- A caccia di lucertole.
- Ancora con questi giochi da ragazzine? Non lo sapete che tra poco sarete delle al-‘arusa?
- ...
- Le vostre madri si stanno mettendo d’accordo proprio adesso. Forse farete la cerimonia nello stesso giorno. Siete contente?
  Le due ragazze si guardano. No, non sono contente; hanno paura. Ma farla insieme è sempre meglio che da sole.
- Andate adesso. Vi stanno cercando.
  Zakiya e Efia trotterellano verso il centro del villaggio. Le loro madri stanno ancora discutendo, sedute nella polvere una davanti all’altra. Per non disturbare si mettono sedute all’ombra di un albero poco distante.
- Zakiya
- Eh
- Hai paura della cerimonia?
- Sì, e tu?
- Anche io. Cosa ci faranno?
- Mia sorella mi ha raccontato qualcosa. Ha detto che ti fanno una grande ferita tra le gambe ed esce tanto sangue. Poi ti toccano con un ferro bollente e quella è la cosa che fa più male. Alla fine ti ricuciono.
- Io non la voglio fare. Non mi importa se nessuno mi vorrà sposare.
- Mia madre ha detto che tutte le donne del villaggio lo hanno fatto. Anche noi lo dobbiamo fare, è la regola.
- Almeno staremo insieme, almeno questo.
- Sì, e poi ci faranno dei doni bellissimi se saremo coraggiose.
- Mia madre ha detto che non bisogna parlare durante la cerimonia. Dovremo rimanere mute come pesci se non vogliamo disonorare le nostre famiglie.
  Una lucertola passa tra le gambe di Efia. Lei se ne accorge e abbassa la mano per prenderla, ma la lucertola è più veloce. Le due ragazze corrono dietro alla lucertola sollevando piccole nuvole di polvere. Nel frattempo le loro madri si accordano sui preparativi per la cerimonia dell’infibulazione.
  
Anne-Sophie torna a casa dal lavoro, stremata. E’ piovuto tutto il giorno. Ogni tanto sembra che a Parigi ci sia la stagione dei monsoni. Ha i vestiti completamente zuppi. Si spoglia, si mette qualcosa di asciutto e si prepara un tè.
  Mette la teiera sul fornello e attiva la segreteria telefonica. Dodici messaggi.
“Come stai Cherie? Sono ancora io. Possiamo vederci stasera? Non ce la faccio a stare senza di te. Ti prego, torna da me, stavamo così bene. Perché non hai voluto più? Io non ce la faccio. Devi tornare, altrimenti divento pazzo!”
  Sempre la solita storia. Non è possibile; dodici messaggi di Damien. Forse è il caso di cambiare numero di telefono. Ne sente ancora qualcuno mentre aspetta che l’acqua bolla.
“Mon Amour, perché mi fa questo? Io sto male davvero! Ti penso sempre. Sempre! Non mi puoi lasciare così, perché io non ti lascio andare. Chiamami quando torni. Impazzisco così, e non so di cosa sono capace. Chiamami. E’ meglio anche per te.”
  Quell’ultimo messaggio non è come gli altri. E’ più “cattivo”. C’è qualcosa in quel “E’ meglio anche per te” che le mette paura. Non è da Damien. Ma il pensiero le passa subito; l’acqua bolle.
  La mattina del giorno seguente Anne-Sophie si è completamente dimenticata dello strano messaggio di Damien. Si veste per andare a lavoro, prende un caffè di corsa e scende le scale. Nemmeno una lettera. Finalmente! Damien ha gettato la spugna.
  Arriva alla macchina e rimane pietrificata. Tutte e quattro le gomme sono a terra e sulla vernice blu della carrozzeria c’è incisa una scritta:
J’AI BESOIN DE TOI
Ho bisogno di te. La situazione è più grave di quanto pensasse. Sa bene chi è stato, e capisce il preoccupante significato di quel messaggio in segreteria. Deve andare a lavoro con l’autobus. Le sembra così irreale. Ma perché va al lavoro? E’ in pericolo deve andare via, denunciare quel pazzo. Ma non le sembra la cosa adatta, farebbe la figura della paranoica. Non può andare dalla polizia a dire che il suo ex le ha bucato le gomme. La polizia avrà ben altro a cui pensare.

 Che caldo anche oggi; quasi stordisce se si rimane al sole. Laleh deve fare appello a tutta la sua forza di volontà per andare a comprare il pane. Le strade sono affollate nel piccolo centro, c’è fila nel forno.
  Finalmente il suo turno. Kaveh la saluta; c’è lui a servire oggi. Il padre sta male, o almeno così le ha detto Amir. Prende quello che le serve, paga ed esce. Non ha voglia di fermasi a chiacchierare; con tutta quella gente e quel caldo. Si soffoca.
  Non ha la forza di fare a spintoni per le strade del centro, e mancano ancora molte ore prima che Amir torni a casa. Decide di tornare passando per la parte esterna del paese.
  Sembrava una buona idea all’inizio. Le strade sono deserte ed emanano un calore incredibile. Cammina a fatica tra le case di pietra bollente che stritolano i vicoli. E’ quasi fuori del paese, tanto si è allontanata dal centro. Forse si è persa.
  Sente dei passi alle sue spalle. Continua a camminare e tenta di affrettarsi. I passi si avvicinano. Si volta ma non vede nessuno. Potrebbero venire da uno qualunque di quei vicoli, non c’è motivo di aver paura.
  I passi però sembrano venirle dietro, non diminuiscono di intensità; cercano lei! Ormai è un po’ che la strada non fa curve, se si volta vedrà chi la segue. Allo stesso tempo però mostrerà di essere spaventata. Ma sicuramente non c’è nessun motivo di esserlo. Si volta con tutta la naturalezza di cui è capace con quel caldo e con quel velo insopportabile. Feroz!
  Si volta di scatto. Non era pronta a vederlo. Non si ferma, non lo saluta. Lui la segue ancora e non la chiama, nemmeno lui la saluta. Non sa che fare, la situazione è troppo strana. Le gira la testa con quel caldo. Ormai sono usciti dal paese, non c’è un’anima a parte loro due. Esce dalla strada, cammina sulla terra secca e sassosa, è sempre più faticoso. Lui le viene sempre dietro. Il caldo è troppo, troppo. La testa le fa male. Il paese è lontano. Il terreno le viene addosso. E’ buio.
- Laleh! Sveglia Laleh, parlami!
  Laleh rinviene. E’ seduta a terra, la schiena appoggiata a un muretto di pietre. Feroz la chiama; le sta davanti. Le ha tolto il velo e le ha aperto la veste per farla respirare.
- Ma che hai fatto! Dammi il velo!
- Ah meno male, non ti svegliavi più.
- Perché mi hai tolto il velo? Tuo padre non ti ha insegnato l’educazione?
- Eri svenuta e avevi bisogno d’aria.
- Ah... beh ... grazie allora.
- E poi sono passati tanti anni da quando mio padre mi diceva come comportarmi.
  C’è tanta malizia nella sua voce. La fissa con quegli occhi, come se volesse qualcosa da lei. Qualcosa che non si può chiedere, qualcosa a cui non si può acconsentire.
  Si avvicina a Laleh. Si avvicina sempre più, non si ferma. Laleh non oppone resistenza. E’ come un morbido fuoco; un bacio lungo e tanto lungamente atteso.
  Non riescono a fermarsi. Si stringono in una morsa che non riescono a sciogliere. Non devono, non adesso, non lì, dove chiunque potrebbe vederli.
  Ma sono fortunati. Non c’è nessuno; il paese è lontano e non verranno denunciati. Giacciono all’ombra del muretto, sfiniti.
- Cosa abbiamo fatto! E se ci hanno visti?
- Nessuno ci ha visti, siamo soli.
- Tu sei un uomo, anzi, sei solo un ragazzo. E’ più facile per te. Ma sai cosa mi potrebbe succedere, sai cosa mi faranno?
- Non permetterò che ti facciano nulla.
- ...
- Devo vederti ancora. Non posso stare senza te.
- Tu vuoi vedermi morta.
- Come puoi dire una cosa simile. Io ho bisogno di te. Domani!
- No, ti prego. Non sai quello che dici.
- Domani sera verrò da te. Anzi vediamoci qui.
- No... Domani... E’ troppo rischioso... Tra una settimana, vieni da me tra una settimana, tre ore prima che tramonti il sole.




...continua



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